Attenzioni non richieste

Marcella Vanzo

Cercare o la performance di Cesare Viel – PAC, Milano, 12 ottobre 2019
Scava e scova Cesare, oggetti e belletti dentro a un terreno preparato.
Qualcosa lo getta.
Il suo è un rovistare leggero.
Il compasso ce lo mostra a 360 gradi, sì, la terra è rotonda.
La pipa è Magritte.

Una camicia bianca, i jeans e un paio di scarpe stringate, nere come gli occhiali, quanto basta per denunciare la sua appartenenza alla razza dell’homo sapiens, dell’homo conscious. Occidentale ovviamente.

Scava, stavolta nell’emisfero boreale, Cesare, opposto al primo, accanto a me e trova una pinza, poi con la pinza trova una scatola e dentro la scatola un domino. E lo mostra a tutti. Dobbiamo essere sicuri di cosa si tratta.

Poi qualcosa di luccicante, di luminoso. Un banale accendino di plastica. Una piccola bilancia, antica.

È bello averlo vicino e scoprire man mano i segreti che dissotterra.

Altre pinze, altri utensili, che ordina in maniera precisa. La sua è una linea al centro della terra.

Il punto di questo lavoro, il punctum, è lo scavare piuttosto che il trovare. Ficcare le mani e gli occhi nella terra ed estrarre, capire cosa ci si trova di fronte, allenare, tenere a bada la curiosità. E i telefoni altrui che spesso interrompono lo sguardo.

Lui questi oggetti li sa.
Lui li ha piantati.
Lui li espone al nostro sguardo, al nostro piccolo sapere.
Con un metro misura le fotografie di famiglia. Costruisce una linea del tempo. L’audio è di un martello, uno scalpello.
Il gesto suo sulla terra è leggero, sicuro.
Cerca qualcosa che sa che troverà.
Il caso è allenato.

Trova anche cose molli, un fazzoletto per esempio e cose che tagliano, la forbice, un taglierino.

Dietro di me qualcuno definisce questa una ricerca.
L’uomo dice: lui sa dove sono gli oggetti, lei risponde: sì è una ricerca. Una ricerca.

Ma ecco che Cesare un oggetto, una scatola per occhiali, ora lo sotterra, proprio davanti a me. Il pubblico non sussurra più, parla proprio.

E lui ora li sotterra un’altra volta gli oggetti, li fa sparire. Dopo tutta questa fatica, dopo tutto questo ricordare, dopo tutto questo portare alla luce.

Non si può scrivere e vivere, mi devo fermare per vedere e poi riportare.
Lui ora fa il contrario, nega la sua azione, questa performance è un mandala.
È vano il suo fare?

Una voce dietro di me domanda: tu cos’hai capito? Cesare pesta la terra sotto di se, dopo aver seppellito ancora una cosa. Forse chiede silenzio, gli oggetti rimasti fuori ora sono solo tre, la linea è sparita, il tempo stringe. C’è chi dice che sta seminando.

Non c’è quasi più niente, poi niente.
Lui scompare da dov’è venuto.
Il titolo della performance è Il giardino di mio padre. Gli oggetti sotterrati.

 

Luna Park Prada, novembre 2017

Da impegnatissimo a disimpegnatissimo, con un salto nella virtual reality che per quanto mi riguarda è durato 93 secondi.
L’altro giorno mi hanno chiesto che cos’è l’arte e io ho detto che deve essere esattamente quello che vuoi fare. Non so perché mi viene in mente ora, ma forse è proprio la commistione selvaggia di linguaggi in mostra che mi ci fa pensare.

Per quanto riguarda la  VR, one must like it e mi fermo qui. Io già sopportavo a fatica l’odore del disinfettante sulla maschera. E una considerazione: tutta sta fatica per riproporre la realtà. Meditate, gente, meditate, diceva qualcuno tanto tempo fa.

Uscendo, per tirarsi su, due cazzoni altissimi, uno di panna ghiacciata direi, l’altro che fuma e in mezzo un grandioso arco di trionfo di ispirazione dannunziana. Felice interprete di se stessa la sciura Pina, una donna delle pulizie in carne e ossa che asciuga in continuazione la – chiamiamola deiezione – del nostro appagato signore.
Meravigliosi Gelitin.

Poi si può poi soffrir di nuovo a volontà con le gradi tele di Golub che descrivono nel dettaglio e larger than life le peggio atrocità della guerra, anche su grands transparents.
Continuando, ecco gli allegri artisti di Chicago, i Famosi Artisti di Chicago, immersi in una carta da parati molto natalizia, mostri fosforescenti, travestiti, maschere, manca solo il trenino per girarci in mezzo.

E per finire Westermann all’ultimo piano. Questi sì che sono deliziosi robot, sculture, giocattoli, teste di pinocchio e scatole di Cornell un po’ più cattivelle, per chiudere in gran bellezza col circo. Pas mal du tout.

Ps: Niente foto, quello che vedete è il pavimento della Fondazione Prada.
Le mostre andate a vederle.